2 novembre – giovedì
Commemorazione
di tutti i fedeli Defunti
Prima Messa
Prima lettura
(Gb 19,23-27a)
Rispondendo Giobbe prese a dire: «Oh, se le mie parole si scrivessero, se si fissassero in un libro, fossero impresse con stilo di ferro e con piombo, per sempre s’incidessero sulla roccia! Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro».
La vittoria su ogni peccato
San Tommaso
(Commento al libro di Giobbe,
c. 19, vv. 23-25)
Quali poi siano questi discorsi che con tanta diligenza vuole che siano conservati, lo mostra soggiungendo: Io so che il mio redentore è vivo, ed espressamente assegna ciò secondo il modo della causa: infatti le cose di cui non siamo certi non ci preoccupiamo di memorizzarle, e per questo dice espressamente Io so, cioè con la certezza della fede. Questa speranza riguarda la risurrezione futura, della quale innanzitutto assegna la causa quando dice: il mio redentore è vivo. Dove bisogna considerare che l’uomo, il quale era stato costituito immortale da Dio, incorse nella morte a motivo del peccato, secondo il testo di Rm 5,12: «A causa di un solo uomo il peccato è entrato in questo mondo, e con il peccato la morte»; e da questo peccato il genere umano doveva essere liberato da Cristo, che Giobbe prevedeva con lo spirito della fede. Ora, Cristo ci ha redenti dal peccato mediante la morte, morendo per noi; ma non morì così da essere assorbito dalla morte, poiché, sebbene sia morto secondo l’umanità, tuttavia non poté farlo secondo la divinità; anzi, dalla vita della divinità anche l’umanità fu riparata risorgendo alla vita, come si legge in 2 Cor 13,4: «Infatti fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio»; e la vita di Cristo risorto si estende a tutti gli uomini per la comune risurrezione, per cui nello stesso luogo l’Apostolo aggiunge: «E anche noi siamo deboli in lui, ma vivremo con lui per la potenza di Dio in noi». E anche il Signore dice (Gv 5,25): «I morti udranno la voce del Figlio di Dio, e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno: come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha dato anche al Figlio di avere la vita in se stesso». Quindi la causa primordiale della risurrezione umana è la vita del Figlio di Dio, che non ebbe inizio da Maria, come dissero gli Ebioniti, ma fu da sempre, secondo il testo di Eb 13,8: «Gesù Cristo è lo stesso, ieri e oggi e per sempre!»; e per questo, espressamente, non dice: «il mio redentore vivrà», ma è vivo. E per questo motivo preannuncia la futura risurrezione determinandone il tempo: ultimo, si ergerà sulla polvere! (lat.: in novissimo die de terra surrecturus sum, nell’ultimo giorno risorgerò dalla terra).
Testo latino di San Tommaso
(Commento al libro di Giobbe,
c. 19, vv. 23-25)
Qui sunt autem hi sermones quos tanta diligentia velit conservari, ostendit subdens scio enim quod redemptor meus vivit, et signanter hoc per modum causae assignat: ea enim quae pro certo non habemus non curamus mandare memoriae, et ideo signanter dicit scio enim, scilicet per certitudinem fidei. Est autem haec spes de gloria resurrectionis futurae, circa quam primo assignat causam cum dicit redemptor meus vivit. Ubi considerandum quod homo qui immortalis fuerat constitutus a Deo mortem per peccatum incurrit, secundum illud Rom. 5 12 per unum hominem peccatum in hunc mundum intravit, et per peccatum mors, a quo quidem peccato per Christum redimendum erat genus humanum, quod Iob per spiritum fidei praevidebat. Redemit autem nos Christus de peccato per mortem pro nobis moriendo; non autem sic mortuus est quod eum mors absorberet, quia etsi mortuus sit secundum humanitatem mori tamen non potuit secundum divinitatem; ex vita autem divinitatis etiam humanitas est reparata ad vitam resurgendo, secundum illud 2 ad Cor. ult. nam etsi crucifixus est ex infirmitate nostra, sed vivit ex virtute Dei; et vita autem Christi resurgentis ad omnes homines diffundetur in resurrectione communi, unde et ibidem subdit apostolus; nam et nos infirmi sumus in illo, sed vivemus in eo virtute Dei in nobis, unde et Dominus dicit Iob 5 25 mortui audient vocem Filii Dei, et qui audierint vivent: sicut enim Pater habet vitam in semet ipso sic dedit et Filio vitam habere in semet ipso. Est ergo primordialis causa resurrectionis humanae vita Filii Dei, quae non sumpsit initium ex Maria, sicut Ebionitae dixerunt, sed semper fuit, secundum illud Hebr. ult. Iesus Christus heri et hodie, ipse et in saecula, et ideo signanter non dicit redemptor meus vivet sed vivit. Et ex hac causa futuram resurrectionem praenuntiat, tempus ipsius determinans, cum subdit et in novissimo die de terra surrecturus sum.
Seconda lettura
(Rm 5,5-11)
Fratelli, la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione.
Ricevere la vita in Cristo
San Tommaso
(Sulla lettera ai Romani,
c. 5, lez. 2, v. 10, n. 403)
403. Tolta la causa dell’inimicizia, ossia il peccato, per mezzo di Cristo, ne deriva come conseguenza la riconciliazione per opera sua. In 2 Cor 5,19 si dice: «È stato Dio a riconciliare a sé il mondo». Il nostro peccato è abolito mediante la morte del suo Figlio.
Riguardo a questo punto bisogna considerare che la morte di Cristo può essere considerata in tre modi.
In un primo modo, secondo la stessa nozione della morte. E in questo senso in Sap 1,13 si dice: «Dio non ha fatto la morte» nella natura umana, ma essa fu introdotta a causa del peccato. Quindi la morte di Cristo, secondo il concetto comune della morte, non fu accetta a Dio così che attraverso di essa avvenisse la riconciliazione, perché «Dio non si rallegra per la rovina dei viventi», come si dice in Sap 1,13.
In un altro modo, la morte di Cristo può essere considerata in quanto atto di coloro che lo uccisero, che dispiacque massimamente a Dio. Per cui contro di essi in At 3,14 Pietro dice: «Voi avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete richiesto che vi fosse lasciato un omicida…». Considerata in questo modo dunque, la morte di Cristo non può essere causa di riconciliazione, ma piuttosto di indignazione.
In un terzo modo, si può considerare la morte in quanto procedette dalla volontà di Cristo sofferente, volontà che era stata conformata a sopportare la morte, sia per obbedienza verso il Padre, Fil 2,8: «Si fece obbediente – al Padre – fino alla morte»; sia anche per amore verso gli uomini, Ef 5,2: «Ci ha amato e ha dato se stesso per noi». E in forza di ciò la morte di Cristo fu meritoria e soddisfattoria per i nostri peccati, e così accetta a Dio da poter riconciliare tutti gli uomini, anche coloro che uccisero Cristo, tra i quali alcuni furono salvati dalla sua stessa preghiera, quando disse, Lc 23,34: «Perdona loro perché non sanno quello che fanno».
Testo latino di San Tommaso
(Super epistolam ad Romanos,
c. 5, lect. 2, v. 10, n. 403)
Subtracta inimicitiae causa, scilicet peccato, per Christum, sequitur reconciliatio per ipsum. II Cor. 5,19: Deus erat in ipso mundum reconcilians sibi. Peccatum autem nostrum sublatum est per mortem Filii eius. Circa quod considerandum est quod mors Christi tripliciter considerari potest. Uno modo secundum ipsam rationem mortis. Et sic dicitur Sap. 1,13: Deus mortem non fecit in humana natura, sed est per peccatum inducta. Et ideo mors Christi, ex communi mortis ratione, non fuit sic Deo accepta, ut per ipsam reconciliaretur, quia Deus non laetatur in perditione vivorum, ut dicitur Sap. 1,13. Alio modo potest mors Christi considerari secundum quod est in actione occidentium, quae maxime Deo displicuit. Unde contra eos Petrus dicit Act. 3,14: vos sanctum et iustum negastis et petistis homicidam, et cetera. Unde mors Christi sic considerata, non potuit esse reconciliationis causa, sed magis indignationis. Tertio modo potest considerari secundum quod processit ex voluntate Christi patientis, quae quidem voluntas informata fuit ad mortem sustinendam, cum ex obedientia ad Patrem, Phil. 2,8: factus est obediens Patri usque ad mortem, tum etiam ex charitate ad homines, Eph. 5,2: dilexit nos et tradidit se pro nobis. Et ex hoc mors Christi fuit meritoria et satisfactoria pro peccatis nostris, et intantum Deo accepta, quod sufficit ad reconciliationem omnium hominum, etiam occidentium Christum, ex quibus aliqui sunt salvati ipso orante, quando dixit Lc. 23, v. 34: ignosce illis quia nesciunt quid faciunt.
Vangelo
(Gv 6,37-40)
In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».
Dio vuole che nessuno si perda
San Tommaso
(Sul Vangelo di San Giovanni,
c. 6, lez. 4, XI-XII, v. 40, nn. 927-928)
927. Presenta il motivo della suddetta volontà divina dicendo: «E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, ecc.». Il motivo per cui il Padre vuole che io non perda nessuno di quanti mi ha dato, è che egli vuole vivificare spiritualmente gli uomini, essendo egli la fonte della vita. Essendo infatti eterno, di per sé il suo volere è che chiunque viene a me abbia la vita eterna. Ed è appunto ciò che qui il Signore afferma: «Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna».
Si faccia però attenzione che mentre sopra (cap. 5,24) aveva affermato: «Chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna»; qui invece afferma: «… e crede in lui», cioè nel Figlio; per farci intendere che è identica la divinità del Padre e del Figlio, la cui visione per essenza costituisce l’ultimo fine per noi, e l’oggetto della fede. Però nell’espressione: «chiunque vede…», il vedere di cui si parla non è la visione di Dio per essenza, che è preceduta dalla fede, ma la visione corporea di Cristo, che induce alla fede. Per questo, di proposito, dice: «… chiunque vede il Figlio e crede in lui». Nel capitolo precedente (v. 24) aveva detto: «Chi ascolta la mia parola… non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita»; e in seguito leggeremo (infra 20,31): «Questi segni sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome».
928. Ora, il suddetto volere del Padre dovrà similmente compiersi; perciò aggiunge: «… e io lo risusciterò nell’ultimo giorno». Perché egli vuole che si abbia la vita eterna non solo nell’anima, ma anche nel corpo (vedi Daniele [12,2]: «E quelli che riposano nella polvere della terra si risveglieranno, alcuni per la vita eterna, altri per l’ignominia»), come è risuscitato anche Cristo; (Rm 6,9): «Cristo risorto dai morti non muore più…».
Testo latino di San Tommaso
(Super Ioannem,
c. 6, lect. 4, XI-XII, v. 40, nn. 927-928)
Rationem autem divinae voluntatis ponit cum dicit haec est autem voluntas Patris mei et cetera. Ratio quare Pater vult quod non perdam ex eo quod dedit mihi, est quia voluntas Patris est vivificare spiritualiter homines, quia ipse est fons vitae. Et quia aeternus est, quantum est de se, voluntatis eius est, ut omnis qui venit ad me habeat vitam aeternam. Et hoc est quod dicit haec est voluntas Patris qui misit me, ut omnis qui videt Filium, et credit in eum, habeat vitam aeternam. Sed attendendum est quod supra 5,24, dixit: qui videt Filium, et credit ei qui misit me, habet vitam aeternam, hic vero dicit qui credit in eum: ut det intelligere eamdem divinitatem Patris et Filii, cuius visio per essentiam est ultimus finis noster, et obiectum fidei. Quod vero dicit videt, non intelligitur de visione per essentiam, quam praecedit fides, sed de visione corporali Christi, quae inducit ad fidem. Et ideo signanter dicit qui videt Filium, et credit in eum; supra 5,24: qui credit in eum (…) non iudicatur, sed transiet a morte in vitam; infra 20,31: haec autem scripta sunt, ut credatis quoniam Iesus Christus est Filius Dei, ut credentes vitam habeatis in nomine eius. Haec autem Patris voluntas similiter implebitur, et ideo subdit, et ego resuscitabo eum in novissimo die: quia ita vult ut non solum in anima, sed etiam in corpore habeat vitam aeternam (Dan. 12,2: de his qui in pulvere dormiunt evigilabunt alii in vitam aeternam, alii vero in opprobrium sempiternum) sicut et Christus resurrexit; Rom. c. 6,9: Christus resurgens ex mortuis, iam non moritur et cetera.
Seconda Messa
Prima lettura
(Is 25,6a.7-9)
In quel giorno, preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni. Eliminerà la morte per sempre. Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto, l’ignominia del suo popolo farà scomparire da tutta la terra, poiché il Signore ha parlato. E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza».
La Chiesa, l’anima, il cielo
San Tommaso
(Su Isaia, c. 25, v. 6)
Nota sulle parole: un banchetto di grasse vivande, che c’è un triplice banchetto.
Il primo è quello familiare della Chiesa militante, nel quale vengono proposte tre cose. Primo, l’amarezza della passione. Es 12: «Lo mangerete con erbe amare». 1 Cor 11: «Ogni volta che mangerete di questo pane, e berrete al calice, annunzierete la morte del Signore fino a che egli venga». Secondo, la dolcezza dell’amore. Sap 16: «Hai dato loro un pane disceso dal cielo, senza fatica, che possiede in sé ogni diletto, e ogni soavità di sapore». Terzo, la pinguedine, quanto all’effetto. Sal 22: «Hai cosparso di olio il mio capo».
Il secondo è il banchetto privato dell’anima, nel quale vengono proposte tre cose. Primo, il vino dell’amore. Ct 1: «Le tue tenerezze sono più dolci del vino». Secondo, il miele della contemplazione. Sal 118: «Quanto sono dolci al mio palato le tue parole!». Terzo, il latte dello svezzamento per crescere verso la perfezione. 1 Pt 2: «Desiderate avidamente il puro latte spirituale».
Il terzo è il banchetto solenne della curia celeste, nel quale vengono proposte tre cose. Primo, il vino per l’ebbrezza. Ct 5: «Mangiate amici, bevete e inebriatevi, carissimi». Secondo, il miele per la sazietà. Sal 16: «Mi sazierò quando apparirà la tua gloria». Terzo, il latte per la perfezione del cuore e dell’anima. Ct 5: «I tuoi occhi come colombe sopra ruscelli d’acqua, lavate nel latte».
Testo latino di San Tommaso
(In Isaiam, c. 25, v. 6)
Nota super illo verbo, convivium pinguium, quod est triplex convivium. Primum familiare militantis Ecclesiae: in quo proponit tria. Primo amaritudinem passionis. Exod. 12: comedetis illud cum lactucis agrestibus. 1 Cor. 11: quotiescumque manducabitis panem hunc, et calicem bibetis, mortem Domini annuntiabitis donec veniat. Secundo dulcedinem dilectionis. Sap. 16: panem de caelo praestitisti eis sine labore, omne delectamentum in se habentem, et omnis saporis suavitatem. Tertio pinguedinem, quantum ad effectum. Psalm. 22: impinguasti in oleo caput meum. Secundum est convivium privatum animae: in quo proponit tria. Primo vinum amoris. Can. 1: meliora sunt ubera tua vino. Secundo mel contemplationis. Psal. 118: quam dulcia faucibus meis eloquia tua. Super mel ori meo. Tertio lac depurationis (et hoc) ad crescendum in perfectum. 1 Pet. 2: rationabiles sine dolo, lac concupiscite. Tertium est convivium solemne caelestis curiae; in quo proponit tria. Primo vinum ad ebrietatem. Can. 5: comedite amici, et bibite et inebriamini; secundo mel ad satietatem. Psal. 16: satiabor cum apparuerit gloria tua. Tertio lac ad perfectionem corporis et animae. Cant. 5: oculi tui sicut columbae.
Seconda lettura
(Rm 8,14-23)
Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria. Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.
L’eccellenza della gloria futura
San Tommaso
(Sulla lettera ai Romani,
c. 8, lez. 4, vv. 18, nn. 654-655)
654. Qui pone quattro elementi per dimostrare l’eccellenza di quella gloria. In primo luogo, indica la sua eternità, dicendo: «futura», cioè dopo questo tempo; ora, dopo questo tempo non c’è altro che l’eternità. Perciò quella gloria supera le sofferenze di questo tempo come l’eterno supera il temporale. 2 Cor 4,17: «Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria».
In secondo luogo, designa la sua dignità, quando dice: «gloria», il che suggerisce un certo splendore di dignità. Sal 149: «Esulteranno i santi nella gloria».
In terzo luogo, ne indica la manifestazione, dicendo «sarà rivelata». Infatti, sin da ora i santi hanno la gloria, ma nascosta nella coscienza. 2 Cor 1,12: «Questa è la nostra gloria: la testimonianza della coscienza». Allora, invece, quella gloria sarà rivelata al cospetto di tutti, sia dei buoni che dei cattivi; di essi in Sap 5,2 si dice: «Si meraviglieranno per la subitaneità della salvezza insperata».
In quarto luogo, designa la sua verità, dicendo: «in noi». Infatti vana è la gloria di questo mondo, trovandosi nelle cose esteriori all’uomo, per esempio nel fasto delle ricchezze e nell’opinione degli uomini. Sal 48,7: «Si gloriano per l’abbondanza delle loro ricchezze». Invece quella gloria sarà di ciò che è dentro l’uomo, secondo quanto si dice in Lc 17,21: «Il regno di Dio è dentro di voi».
655. Così, dunque, le sofferenze di questo tempo, considerate in se stesse, si distaccano assai dalla grandezza di questa gloria Is 54,7: «Per un breve istante ti ho abbandonata, ma con immenso amore ti riprenderò». Se però tali sofferenze sono considerate in quanto sopportate volontariamente per Dio con la carità, che lo Spirito Santo opera in noi, allora giustamente, attraverso di esse, si merita la vita eterna. Infatti lo Spirito Santo è la fonte le cui acque, cioè gli effetti, zampillano per la vita eterna, come si dice in Gv 4,14.
Testo latino di San Tommaso
(Super epistolam ad Romanos,
c. 8, lect. 4, v. 18, nn. 654-655)
Ubi quatuor ponit ad ostendendum excellentiam illius gloriae. Primo quidem designat eius aeternitatem, cum dicit ad futuram, scilicet post hoc tempus; nihil autem est post hoc tempus nisi aeternitas. Unde illa gloria excedit passiones huius temporis, sicut aeternum temporale. 2 Cor. 4, v. 17: id enim quod in praesenti est momentaneum, et leve tribulationis nostrae, supra modum in sublimitate aeternum gloriae pondus operatur in nobis. Secundo designat eius dignitatem, cum dicit gloriam, quae claritatem quamdam dignitatis insinuat. Ps. 149,5: exultabunt sancti in gloria. Tertio designat manifestationem cum dicit quae revelabitur. Nunc enim gloriam quidem habent sancti, sed occultatam in conscientia. 2 Cor. 1,12: gloria nostra haec est: testimonium conscientiae nostrae. Tunc autem gloria illa in conspectu omnium revelabitur, et bonorum et malorum, de quibus dicitur Sap. 5,2: mirabuntur in subitatione insperatae salutis. Quarto designat eius veritatem, cum dicit in nobis. Gloria enim huius mundi vana est, quia est in his quae sunt extra hominem, puta in apparatu divitiarum et in opinione hominum. Ps. 48,7: in multitudine divitiarum suarum gloriantur. Sed illa gloria erit de eo quod est intra hominem, secundum illud Lc. 17,21: regnum Dei intra vos est. Sic igitur passiones huius temporis, si secundum se considerentur, multum deficiunt a quantitate huius gloriae. Is. 54, v. 7: ad punctum in modico dereliqui te, et in miserationibus magnis congregabo te. Sed si considerentur huiusmodi passiones inquantum eas aliquis voluntarie sustinet propter Deum ex charitate, quam in nobis Spiritus facit, sic ex condigno per huiusmodi passiones homo meretur vitam aeternam. Nam Spiritus Sanctus est fons cuius aquae, id est effectus, saliunt in vitam aeternam, ut dicitur Io. 4,14.
Vangelo
(Mt 25,31-46)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».
Il giudizio del Signore
San Tommaso
(Catena aurea sul Vangelo di San Matteo,
c. 25, lez. 3, v. 31)
RABANO: Dopo le parabole sulla fine del mondo, il Signore espone il modo del futuro giudizio. CRISOSTOMO: Questa parte del discorso è sommamente dilettevole, e dobbiamo ascoltarla con grande impegno, e con ogni compunzione, rivolgendola continuamente nell’animo; infatti lo stesso Cristo proferisce questo discorso in modo più terribile e chiaro. Per questo non dice, come altrove, «il regno dei cieli è simile», ma mostra se stesso apertamente, dicendo: Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria. GIROLAMO: Colui che due giorni dopo doveva celebrare la Pasqua, ed essere condannato alla croce, e schernito dagli uomini, opportunamente promette la gloria del trionfatore, per compensare i futuri scandali con la promessa del premio. E bisogna notare che colui che dovrà essere visto nella gloria, è Figlio dell’uomo. AGOSTINO: Sotto la forma umana lo vedranno gli empi, e lo vedranno anche posto alla destra: infatti nel giudizio apparirà nella forma che prese da noi, ma in seguito accadrà che sia visto nella forma di Dio, che tutti i fedeli conoscono.
Testo latino di San Tommaso
(Catena aurea super Matthaeum,
c. 25, lect. 3, v. 31)
Rabanus. Post parabolas de fine mundi, iam exequitur Dominus modum futuri iudicii. Chrysostomus in Matth. Est autem haec pars delectabilissima, quam continue in animo vertentes, cum studio audiamus, et omni compunctione; nam et ipse Christus terribilius et lucidius hunc pertractat sermonem. Idcirco non dicit de cetero: simile factum est regnum caelorum; sed revelate seipsum ostendit, dicens cum autem venerit Filius hominis in maiestate sua. Hieronymus. Post biduum quidem Pascha facturus, et tradendus cruci, et illudendus ab hominibus, recte promittit gloriam triumphantis, ut secutura scandala pollicitationis praemio compensaret. Et notandum, quod qui in maiestate cernendus est, Filius hominis sit. Augustinus super Ioannem. In forma humana videbunt eum impii, videbunt et ad dexteram positi: in iudicio enim apparebit in forma quam ex nobis accepit; sed postea futurum est ut videatur in forma Dei, quam sciunt omnes fideles.
Terza Messa
Prima lettura
(Sap 3,1-9)
Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento li toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero, la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza resta piena d’immortalità. In cambio di una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé; li ha saggiati come oro nel crogiolo e li ha graditi come l’offerta di un olocausto. Nel giorno del loro giudizio risplenderanno, come scintille nella stoppia correranno qua e là. Governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli e il Signore regnerà per sempre su di loro. Coloro che confidano in lui comprenderanno la verità, i fedeli nell’amore rimarranno presso di lui, perché grazia e misericordia sono per i suoi eletti.
L’immortalità dell’anima umana
San Tommaso
(S. Th. I, q. 75, a. 6, corpo e soluzione 1)
È necessario affermare che l’anima umana, cioè il principio intellettivo, è incorruttibile. Infatti la corruzione di una cosa avviene in due modi: direttamente [per se], e indirettamente [per accidens]. Ora, non è possibile che un essere sussistente nasca o perisca in maniera indiretta, cioè in forza della generazione o della corruzione di un altro essere. Infatti la generazione e la corruzione competono a una cosa nella stessa maniera in cui le compete l’essere, il quale è acquistato con la generazione ed è perduto con la corruzione. Per conseguenza ciò che direttamente possiede l’essere non può soggiacere alla generazione e alla corruzione altro che direttamente; al contrario gli esseri non sussistenti, come gli accidenti e le forme materiali, si dice che nascono e periscono in seguito alla generazione e alla corruzione del composto [in cui si trovano]. Ora, abbiamo visto che le anime dei bruti non sono direttamente sussistenti, ma lo è soltanto l’anima umana. Quindi le loro anime periscono con la distruzione del corpo, mentre l’anima umana non potrebbe perire se non mediante la propria diretta distruzione. Ciò però è impossibile non solo per essa, ma per ogni ente sussistente che sia soltanto forma. Infatti è chiaro che quanto direttamente [per se] compete a un essere, è da esso inseparabile. Ora, l’essere compete direttamente alla forma, la quale è atto. Per cui la materia acquista l’essere in atto acquistando la forma, e la corruzione si verifica in essa appunto perché la forma viene a separarsi da essa. Ora, è impossibile che una forma si separi da se stessa. È dunque impossibile che una forma sussistente cessi di esistere. Ma anche ammettendo che l’anima fosse composta di materia e di forma, come dicono alcuni, bisognerebbe sempre ritenerla incorruttibile. Infatti non si trova corruzione se non là dove si trova contrarietà; poiché i processi di generazione e corruzione provengono da elementi contrari e tendono a termini contrari – per cui i corpi celesti, non avendo una materia soggetta a contrarietà sono incorruttibili –. Ma non vi può essere contrarietà alcuna nell’anima intellettiva. Le sue percezioni infatti, che avvengono secondo il modo del suo essere, sono prive di contrarietà: per cui anche le nozioni dei contrari non sono tra loro contrarie nell’intelletto, anzi, è unica la scienza dei contrari. Non è dunque possibile che l’anima intellettiva sia corruttibile. E una riprova di questa verità può vedersi nel fatto che ogni essere desidera naturalmente di esistere nel modo ad esso conveniente. Ma negli esseri dotati di conoscenza il desiderio segue la conoscenza. Ora, mentre i sensi conoscono l’essere soltanto nelle circostanze particolari di luogo e di tempo, l’intelletto percepisce l’essere su un piano assoluto e rispetto a ogni tempo. Per cui ogni essere dotato di intelletto desidera naturalmente di esistere sempre. Ma un desiderio naturale non può essere vano. Quindi ogni sostanza intellettuale è incorruttibile.
1. Salomone fa quell’affermazione a nome degli stolti, com’è detto espressamente in Sap. Dire dunque che l’uomo e gli altri animali nella loro generazione hanno un uguale principio è vero quanto al corpo: infatti tutti gli animali sono ugualmente tratti dalla terra. Non è però vero quanto all’anima: poiché l’anima dei bruti è prodotta da una potenza corporea, mentre l’anima umana viene da Dio. Per questo in Gen è detto riguardo agli altri animali: La terra produca esseri viventi, mentre per l’uomo si dice che Dio soffiò nelle sue narici un alito di vita. Quindi in Qo si conclude: Ritorni la polvere alla terra, da cui fu tratto, e lo spirito torni a Dio, che l’ha dato. – Parimenti, il processo vitale è simile quanto al corpo, al quale si riferiscono i passi di Qo: Tutti hanno ugualmente lo stesso soffio vitale, e di Sap: È un fumo il soffio delle nostre narici ecc. Però il processo non è uguale quanto all’anima: poiché l’uomo ha l’intelligenza, e non invece gli animali. È quindi falsa l’affermazione di Qo: L’uomo non ha nulla in più rispetto alla bestia. Se dunque la fine è simile quanto al corpo, non lo è però quanto all’anima.
Testo latino di San Tommaso
(S. Th. I, q. 75, a. 6, corpus e ad primum)
Respondeo dicendum quod necesse est dicere animam humanam, quam dicimus intellectivum principium, esse incorruptibilem. Dupliciter enim aliquid corrumpitur, uno modo, per se; alio modo, per accidens. Impossibile est autem aliquid subsistens generari aut corrumpi per accidens, idest aliquo generato vel corrupto. Sic enim competit alicui generari et corrumpi, sicut et esse, quod per generationem acquiritur et per corruptionem amittitur. Unde quod per se habet esse, non potest generari vel corrumpi nisi per se, quae vero non subsistunt, ut accidentia et formae materiales, dicuntur fieri et corrumpi per generationem et corruptionem compositorum. Ostensum est autem supra [aa. 2-3] quod animae brutorum non sunt per se subsistentes, sed sola anima humana. Unde animae brutorum corrumpuntur, corruptis corporibus, anima autem humana non posset corrumpi, nisi per se corrumperetur. Quod quidem omnino est impossibile non solum de ipsa, sed de quolibet subsistente quod est forma tantum. Manifestum est enim quod id quod secundum se convenit alicui, est inseparabile ab ipso. Esse autem per se convenit formae, quae est actus. Unde materia secundum hoc acquirit esse in actu, quod acquirit formam, secundum hoc autem accidit in ea corruptio, quod separatur forma ab ea. Impossibile est autem quod forma separetur a seipsa. Unde impossibile est quod forma subsistens desinat esse. Dato etiam quod anima esset ex materia et forma composita, ut quidam dicunt, adhuc oporteret ponere eam incorruptibilem. Non enim invenitur corruptio nisi ubi invenitur contrarietas, generationes enim et corruptiones ex contrariis et in contraria sunt; unde corpora caelestia, quia non habent materiam contrarietati subiectam, incorruptibilia sunt. In anima autem intellectiva non potest esse aliqua contrarietas. Recipit enim secundum modum sui esse, ea vero quae in ipsa recipiuntur, sunt absque contrarietate; quia etiam rationes contrariorum in intellectu non sunt contrariae, sed est una scientia contrariorum. Impossibile est ergo quod anima intellectiva sit corruptibilis. Potest etiam huius rei accipi signum ex hoc, quod unumquodque naturaliter suo modo esse desiderat. Desiderium autem in rebus cognoscentibus sequitur cognitionem. Sensus autem non cognoscit esse nisi sub hic et nunc, sed intellectus apprehendit esse absolute, et secundum omne tempus. Unde omne habens intellectum naturaliter desiderat esse semper. Naturale autem desiderium non potest esse inane. Omnis igitur intellectualis substantia est incorruptibilis.
Ad primum ergo dicendum quod Salomon inducit rationem illam ex persona insipientium, ut exprimitur Sap. 2 [1.21]. Quod ergo dicitur quod homo et alia animalia habent simile generationis principium, verum est quantum ad corpus, similiter enim de terra facta sunt omnia animalia. Non autem quantum ad animam, nam anima brutorum producitur ex virtute aliqua corporea, anima vero humana a Deo. Et ad hoc significandum dicitur Gen. [1,24], quantum ad alia animalia, producat terra animam viventem, quantum vero ad hominem, dicitur [Gen. 2,7] quod inspiravit in faciem eius spiraculum vitae. Et ideo concluditur Eccle. ult. [7], revertatur pulvis in terram suam, unde erat, et spiritus redeat ad Deum qui dedit illum. Similiter processus vitae est similis quantum ad corpus; ad quod pertinet quod dicitur in Eccle. [3,19], similiter spirant omnia; et Sap. 2 [2], fumus et flatus est in naribus nostris et cetera. Sed non est similis processus quantum ad animam, quia homo intelligit, non autem animalia bruta. Unde falsum est quod dicitur, nihil habet homo iumento amplius. Et ideo similis est interitus quantum ad corpus, sed non quantum ad animam.
Seconda lettura
(Ap 21,1-5a.6b-7)
Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate». E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose. Io sono l’Alfa e l’Omèga, il Principio e la Fine. A colui che ha sete io darò gratuitamente da bere alla fonte dell’acqua della vita. Chi sarà vincitore erediterà questi beni; io sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio».
La beatitudine e la risurrezione
San Tommaso
(S. Th. Suppl., q. 93, a. 1, corpo e soluzioni 1, 2 e 3 –
IV Sent., dist. 49, q. 1, a. 4, soluzione 1, ad 1m, 2m, 3m)
Che la beatitudine dei santi dopo la resurrezione aumenti in estensione è evidente: perché allora essa non sarà solo nell’anima, ma anche nel corpo. Però la stessa beatitudine dell’anima avrà un aumento in estensione: poiché l’anima non godrà solo del proprio bene, bensì anche di quello del corpo. Anzi si può dire che la beatitudine dell’anima stessa aumenterà in intensità. Infatti il corpo dell’uomo può essere considerato sotto due punti di vista: primo, in quanto è perfettibile da parte dell’anima; secondo, in quanto si trova in esso qualche cosa che ostacola l’anima nelle sue operazioni, non lasciandosi in tutto perfezionare dall’anima. Considerandola dal primo punto di vista l’unione del corpo con l’anima apporta all’anima una perfezione. Poiché ogni parte è imperfetta e viene completata nel suo tutto: cosicché il tutto sta alla parte come la forma sta alla materia. Perciò anche l’anima è più perfetta nel suo essere naturale quando è nel tutto, cioè nell’uomo composto attualmente di anima e corpo, di quando ne è separata. Ma considerata dal secondo punto di vista, l’unione del corpo impedisce la perfezione dell’anima; di qui le parole della Sapienza: «Il corpo che si corrompe aggrava l’anima». Se quindi dal corpo si elimina tutto ciò per cui resiste all’azione dell’anima, l’anima sarà in senso assoluto più perfetta esistendo in codesto corpo, che separata da esso. Orbene, quanto più una cosa è perfetta nell’essere, tanto è in grado di agire più perfettamente. Perciò l’agire dell’anima unita a un tale corpo sarà più perfetto di quello dell’anima separata. Ma tale è appunto il corpo glorioso, che sarà in tutto sottomesso allo spirito. Consistendo dunque la beatitudine in un’operazione, la beatitudine dell’anima sarà più perfetta dopo la riassunzione del corpo che prima: infatti come l’anima separata dal corpo corruttibile può agire con più perfezione di quando è ad esso congiunta, così dopo il ricongiungimento col corpo glorioso il suo operare sarà più perfetto di quando ne era separata. Ora, ogni essere imperfetto desidera la propria perfezione. Dunque l’anima separata brama naturalmente di ricongiungersi al corpo. E per codesta brama, che procede da uno stato d’imperfezione, la sua operazione con la quale tende verso Dio è meno intensa. Ecco perché S. Agostino afferma che «dal desiderio del corpo l’anima viene ritardata nel suo tendere totalmente verso il sommo bene».
1. L’anima è più simile a Dio quando è unita al corpo glorioso che quando è separata, poiché con tale unione ha un essere più perfetto: infatti più una cosa è perfetta, più è simile a Dio. Il cuore, p. es., la cui perfezione di vita consiste nel moto, è più simile a Dio quando si muove che quando è fermo, sebbene Dio non si muova mai.
2. Una virtù che per sua natura è fatta per essere nella materia, è più potente esistendo nella materia che stando separata da essa: sebbene assolutamente parlando una virtù separata dalla materia abbia una potenza maggiore.
3. Sebbene nell’atto d’intendere l’anima non si serva del corpo, tuttavia la perfezione del corpo in qualche modo coopererà alla perfezione dell’atto intellettivo, in quanto per l’unione del suo corpo glorioso l’anima sarà naturalmente più perfetta, e quindi più efficace nell’operare. In tal modo il bene stesso del corpo coopererà strumentalmente all’operazione in cui consiste la beatitudine: analogamente a quanto dice il Filosofo a proposito dei beni esterni, che strumentalmente cooperano alla felicità della vita [presente].
Testo latino di San Tommaso (S. Th. Suppl.,
q. 93, a. 1, corpus, ad primum e ad secundum –
IV Sent., dist. 49, q. 1, a. 4, solutio 1, ad 1m, 2m, 3m)
Respondeo dicendum ad primam quaestionem, quod beatitudinem sanctorum post resurrectionem augeri extensive quidem manifestum est; quia beatitudo tunc erit non solum in anima, sed etiam in corpore; et etiam ipsius animae beatitudo augebitur extensive, inquantum anima non solum gaudebit de bono proprio, sed de bono corporis. Potest etiam dici, quod etiam beatitudo animae ipsius augebitur intensive. Corpus enim hominis dupliciter potest considerari. Uno modo secundum quod est ab anima perfectibile; alio modo secundum quod est in eo aliquid repugnans animae in suis operibus, prout non perfecte corpus per animam perficitur. Secundum autem primam considerationem corporis, conjunctio corporis ad animam addit animae aliquam perfectionem; quia omnis pars imperfecta est, et completur in suo toto; unde et totum se habet ad partes sicut forma ad materiam; unde et anima perfectior est in esse suo naturali cum est in toto, scilicet in homine conjuncto ex anima et corpore, quam cum est per se separata. Sed unio corporis quantum ad secundam ipsius considerationem impedit animae perfectionem; et ideo dicitur, quod corpus quod corrumpitur, aggravat animam; Sap. 9,15. Si ergo a corpore removeatur omne id per quod actioni animae resistit; simpliciter anima erit perfectior in corpore tali existens quam per se separata. Quanto autem aliquid est perfectius in esse, tanto potest perfectius operari; unde et operatio animae conjunctae tali corpori erit perfectior quam operatio animae separatae. Hujusmodi autem corpus est corpus gloriosum, quod omnino subdetur spiritui, ut supra, dist. 44, dictum est. Unde cum beatitudo in operatione consistat, perfectior erit beatitudo animae post resumptionem corporis quam ante. Sicut enim anima separata a corpore corruptibili perfectius potest operari quam ei conjuncta; ita postquam conjuncta fuerit corpore glorioso, perfectior erit ejus operatio quam quando erat separata. Omne autem imperfectum appetit suam perfectionem et ideo anima separata naturaliter appetit corporis conjunctionem: et propter hunc appetitum ex imperfectione procedentem, ejus operatio quae in Deum fertur, est minus intensa; et hoc est quod dicit Hieronymus, quod ex appetitu corporis retardatur ne tota intentione pergat in illud summum bonum.
Ad primum ergo dicendum, quod anima conjuncta corpori glorioso magis est Deo similis quam ab eo separata, inquantum conjuncta habet esse perfectius. Quanto enim aliquid est perfectius, tanto est Deo similius: sicut etiam cor, cujus vitae perfectio in motu consistit, est Deo similius quando movetur quam quando quiescit, quamvis Deus nunquam moveatur.
Ad secundum dicendum, quod virtus quae de sua natura habet quod sit in materia, magis est potens in materia existens quam a materia separata; quamvis, absolute loquendo, virtus a materia separata sit potentior.
Ad tertium dicendum, quod quamvis in actu intelligendi anima corpore non utatur, tamen perfectio corporis quodammodo ad perfectionem operationis intellectualis cooperabitur, inquantum ex conjunctione corporis gloriosi anima erit in sua natura perfectior, et per consequens in operatione efficacior; et secundum hoc, ipsum bonum corporis cooperabitur quasi instrumentaliter ad operationem illam in qua beatitudo consistit; sicut etiam philosophus ponit in 1 Ethic., quod bona exteriora cooperantur instrumentaliter ad felicitatem vitae.
Vangelo
(Mt 5,1-12a)
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
Il Signore insegna
San Tommaso
(Catena aurea sul Vangelo di San Matteo,
c. 5, lez. 1, v. 1)
Segue: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. GIROLAMO: Parla stando seduto, non in piedi, poiché non lo potevano capire nello splendore della sua maestà. AGOSTINO: Oppure l’insegnare da seduti compete alla dignità del maestro. Poi si avvicinarono a lui i suoi discepoli, in modo che quanti si avvicinavano con l’animo per adempiere i precetti fossero anche più vicini con il corpo per udire le sue parole. RABANO: In senso mistico poi, questo sedersi del Signore è la sua incarnazione: poiché, se il Signore non si fosse incarnato, il genere umano non si sarebbe potuto avvicinare a lui. AGOSTINO: Colpisce il fatto che Matteo dica che questo discorso fu tenuto dal Signore seduto sul monte, mentre Luca dice che fu tenuto in un luogo pianeggiante dal Signore ritto in piedi. Ora, questa diversità mostra che si tratta di due discorsi diversi. Che cosa impedisce infatti che Cristo ripeta in un altro luogo le cose che aveva già detto, oppure rifaccia le cose ce aveva già fatto? Oppure si presenta un’altra soluzione: dapprima il Signore stava con i soli discepoli in qualche parte più elevata del monte, quando da essi scelse i dodici; poi discese con loro non dal monte, ma dalla sua cima, verso un luogo pianeggiante, cioè in qualche pianura che stava sul fianco del monte e poteva accogliere molti, e lì rimase in piedi fino a che la folla non si fu radunata intorno a lui; poi, sedutosi, gli si avvicinarono maggiormente i suoi discepoli, e così ad essi e all’altra folla presente fece un unico discorso, che Matteo e Luca riferiscono in modo diverso, ma con la stessa verità dei fatti.
GREGORIO: Prima che il Signore desse sul monte i suoi sublimi precetti, si dice che, aprendo la sua bocca, li ammaestrava, egli che aveva già aperto la bocca dei Profeti. REMIGIO: Dovunque si legge che il Signore aprì la sua bocca si deve fare attenzione, poiché sta per dire delle cose grandi. AGOSTINO: Oppure dice aprendo la sua bocca per indicare che il discorso che seguirà sarà più lungo del solito. CRISOSTOMO: Oppure dice così perché tu impari che talora egli insegnava aprendo la bocca per parlare, talora invece emettendo la voce che è nelle opere. AGOSTINO: Se uno poi studia con pietà e prudenza questo discorso, vi troverà il perfetto modo della vita cristiana per quanto riguarda l’opportunità dei costumi; per cui il discorso si conclude così (Mt 7,24): «Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica sarà simile a un uomo saggio».
Testo latino di San Tommaso
(Catena aurea super Matthaeum,
c. 5, lect. 2, v. 1)
Sequitur et cum sedisset, accesserunt ad eum discipuli eius. Hieronymus. Ideo autem non stans, sed sedens, loquitur, quia non poterant eum intelligere in sua maiestate fulgentem. Augustinus de Serm. Dom. Vel quod sedens docebat, pertinet ad dignitatem magistri. Accesserunt autem ad eum discipuli eius, ut audiendis verbis illius hi essent etiam corpore viciniores qui praeceptis implendis animo appropinquabant. Rabanus. Mystice autem sessio Domini, incarnatio eius est: quia nisi Dominus incarnatus esset, humanum genus ad eum accedere non potuisset. Augustinus De cons. Evang. Movet autem quod Matthaeus in monte dicit hunc habitum esse sermonem a Domino sedente; Lucas autem in loco campestri a Domino stante. Haec igitur diversitas facit videri alium fuisse illum, alium istum. Qui enim prohibet Christum quaedam alibi repetere quae ante iam dixerat, aut iterum facere quae ante iam fecerat? Quamquam etiam possit illud occurrere: in aliqua excellentiori parte montis primo cum solis discipulis Dominum fuisse, quando ex eis duodecim elegit; deinde cum eis descendisse non de monte, sed de ipsa montis celsitudine in campestrem locum, idest, in aliquam aequalitatem quae in latere montis erat et multos capere poterat, atque ibi stetisse donec ad eum turbae congregarentur; ac postea cum sedisset, accessisse propinquius discipulos eius, atque ita illis ceterisque turbis praesentibus, unum habuisse sermonem, quem Matthaeus Lucasque narrant diverso narrandi modo, sed eadem veritate rerum. Gregorius Moralium. Sublimia autem praecepta Domino in monte dicturo praemittitur aperiens os suum, docebat eos, qui dudum aperuerat ora prophetarum. Remigius. Ubicumque autem legitur Dominus aperuisse os, inspiciendum est, quia magna sunt quae sequuntur. Augustinus De serm. Dom. Vel dicit aperiens os suum, ut ipsa mora commendet aliquanto longiorem futurum esse sermonem. Chrysostomus in Matth. Vel hoc dicit, ut discas quoniam nunc quidem docebat os aperiens in loquendo, nunc autem vocem, quae est ab operibus, emittens. Augustinus. Si quis autem pie sobrieque consideravit, inveniet in hoc sermone, quantum ad mores opportunos pertinet, perfectum vitae Christianae modum; unde sic ipse sermo concluditur: omnis qui audit verba mea haec et facit ea, similabo eum viro sapienti.